gilania – racconta

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Poi viene il giorno che dico: c’è da scrivere, e dopo un po’ il pezzo arriva.

Cosa voglio dire: voglio parlare di due tre dinamiche forse psicologiche, non so, di sicuro relazionali.

Spero di essere veloce, ossia diretta.

Tutto nasce da una serie di situazioni in cui sono incappata per lavoro, o per gioco, o in cui la vita mi ha messo. O mi ci sono messa. Di tutto un po’.

Allora dico, così, semplicemente elencando, anche senza contestualizzare, ossia, non mi va di raccontare a quale scenario appartengono alcune situazioni. Mi interessa ciò che mi stanno dicendo. 

1 – A me è accaduto di … strisciare. Chiedere. Ri-chiedere. Anche implorare. E’ accaduto di cercare il contatto di qualcuno, cercare la persona, inseguirla, pregarla, insistere. Poi rassegnarmi e cedere e sparire. Accettando, (mica tanto).

Di stare zitta e riapparire dopo tempo. Tanto, poco. Dipende.

A me è accaduto anche di “sentire che avevo perso” – “sapere che avevo perso” e essermi ri-presentata sul campo ugualmente. Ossia, pur sapendo di aver perso, di essere stata buttata fuori, messa fuori dai giochi, io ho cercato lo stesso le persone. Perché c’era sempre un qualcosa che, per essere fedele a me stessa, andava ancora fatto, o tentato, o riprovato, re-inventato, rischiato.

Per cui ho rischiato.

Ho vissuto: il disonore, il ridicolo, il giudizio, il rifiuto, i silenzi (e me li sono tenuti e sofferti). Ho rischiato e davvero mi sono subita e presa: le rivalse dell altro, i rifiuti, i silenzi, i no, l’essere ignorata, il non ottenere risposta, l’essere non salutata, non informata, non messa al corrente.

gilania – racconta

Mi sono rimessa sullo stesso campo lo stesso. Ho conosciuto e provato il giudizio, il ridicolo, il disprezzo, i gesti violenti. 

Ho avuto atteggiamenti di dipendenza, di attaccamento, di necessità, di bisogno, di preghiera, di lamento. Mi sono umiliata, abbassata, ho ceduto, ho accettato, abbassato la testa.

Ho fatto tutto questo anche consapevolmente. Ossia, mi sono avviata verso certe persone anche sapendo in anticipo che mi sarei trovata così, come ho descritto sopra. Che avrei fatto come ho detto sopra.

Insomma: tutto il peggio, il più sottomesso e fragile, il più supplichevole, basso, infimo, sottomesso, dispregiativo eccetera eccetera.

Ho detto la mia impotenza, mi sono presa tutta la responsabilità, ho chiesto scusa. Ho dovuto accettare di non ottenere risposta. Di restare ignorata.

Bisogna provare.

Eppure, io non temo fare questo.

Mi rendo conto che non ho paura a ricevere un no, chiedo lo stesso. 

gilania – racconta 

Oggi capisco che se all’altro va bene così, ok, va bene così.

Non temo più non ottenere risposte, so cosa si prova. Ma so anche cosa si conquista e cosa si diventa.

Non temo di essere giudicata, perché non si è mai giudicati. L unica che giudica me stessa sono io. Non mi conviene. Credo di aver imparato un po’ a non giudicare.

Io ho fatto tutto quanto ho detto sopra. Mi pare normale, logico, naturale farlo. Sono umana. 

Ho fatto delle figure di m… evabbé, preferisco fare una figura di m… che non tentare.

Preferisco rischiare che perdermi una possibilità.

Ho anche sperimentato che, proprio là, dove temevo di non avere risposta, di non essere accettata, proprio là è andata bene. Ho avuto le risposte,

aspettava solo me

che io agissi.

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E’ stato, avvolte, come se l’unica cosa che ancora mancava fossi io, e dopo che mi sono affacciata, che ho rischiato, tutto s’è allineato da solo. Come un puzzle che trova il suo tassello di completamento. 

Questo e solo questo mancava. Ora tutto è in ordine.

Mancavo solo il mio gesto. Tanto. Poco. Mancava quel quid che trattenevo per paura, per timore del rifiuto, del giudizio.

Mancava quell’ultimo tentativo di sincerità. Di fragilità.

Innanzitutto di fidarmi un po’ più di me stessa nel dirmi che:

sono capace di parlare

– di essere sincera.

E poi anche: 

  sono accolta 

– sono ascoltata

– mi stava aspettando

– tutto è andato a posto.

Ecco: ho conosciuto le relazioni, le interazioni e i loro contrari.

Cavoli, che forza che si mette su facendo quello che si teme di fare.

Di quanti volti si veste il timore, la paura. Quanti pseudo ipotesi si fa la mente per giocarci, per tenerci sul filo e non farci fare il passo che davvero vorremmo fare.

Vale la pena farlo, anche quando si dubita fortemente, anche quando non ci si dà speranza. Anche quando si teme, e tanto, la non risposta, il rifiuto, i silenzi.

Io: sono grande per aver tentato.

Per questo sono grande.

Io, ho fatto la mia parte. Sono contenta di averla fatta, comunque sia andata. Io Sono.

Ho vissuto quel momento. Comunque l’ho vissuto.

E l’ho donato, prima a me e insieme all’altro.

Che se ne è fatto? non lo so.

Ma io l’ho donato.

Oppure, ho fatto un gesto sbagliato. Eh sì. Ma ho tentato.

A volte si sbaglia, e grosso. Ho sbagliato. So che so anche riconoscerlo. Non ci vuole molto. Pare difficile dire le cose, certe cose, invece è semplice e facile.

E’ un salto. Benedetto quel salto.

Anche se non ho avuto risposte. Anche se la situazione è rimasta tale e quale.

Ma – io – ho – fatto – il – gesto.

So che l’altro sa, accoglie. Chissà perché ma tutti i miei timori sono svaniti.

Perché ho tentato.

Eppure ho sbagliato tante volte.

L’ho riconosciuto lo stesso. Bu, forse per me è così per altri no. Va bene lo stesso.

E’ tutto uno scorrere di dinamiche, forze energia, flussi.

Questo percepisco. Tutto scorre. Anche ciò che si è stati, ciò che si è.

Tutto scorre. E si vive.